"Quel che apprezzate di una bevanda alcolica non è la bevanda in sé, ma il porre fine all'irritazione causata dall'ardente desiderio di averla."
(Allen Carr, È facile controllare l'alcol se sai come farlo, 2007)
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Quando scrivo, non mangio.
Quando cammino, non mangio.
Quando cammino all'aria aperta, c'è questo senso di libertà che assomiglia a una specie di gratificazione primordiale, un senso di riconciliazione, che si va a sostituire. Il pensiero al cibo scompare.
Se poi penso a cammini di pellegrinaggio (per esteso, a qualcosa di coinvolgente a livello spirituale, che distoglie l'attenzione da cose futili come la "dieta" nella vita) questo rende il pensiero quotidiano della gestione del mangiare una cosa priva di significato, insussistente, risolta.
Purtroppo, sono in pellegrinaggio in casa al momento, o per i dintorni di Bologna. Però, se mi tengo 1) occupata 2) piena, con spuntini frequenti, fra crackers, frutta non zuccherata e tisane o orzi vari, non mi porto all’orario dei pasti con quella fame per cui in genere divorerei qualunque cosa.
Bere (acqua) mi ripulisce, mi aiuta. Bere anche il tè verde originale cinese di mia zia. È magnifico. Avere una zia cinese.
Gli orari peggiori sono quelli che seguono la cena: lo so, li affronto, li accetto, non li combatto, li considero come il male di quando si fanno gli addominali, positivo. La cosa funziona.
Mi posso riempire di cibo sano per spegnere la fame (il corpo), questo mi aiuta a placare l’appetito (la mente). Ci si sente sollevati dopo, appagati senza torture psicologiche. È importante saper distinguere tra l'una (che si placa mangiando) e l'altro (che invece "vien mangiando"). È importante saperli riconoscere.
È bellissimo sentire il corpo che piano piano si purifica, si ripulisce, torna a rispondere, a funzionare, è leggero. È come una carezza, che va a sostituirsi a quel senso familiare di frustrazione autoinflitta, di fallimento e di biasimo quotidiano.
Queste le cose che ho imparato finora, sulla mia pelle.
Per i fumatori è la sigaretta a fare la differenza, ma non perché le sigarette siano piacevoli, perché i fumatori si sentono depressi se non possono fumare.
Vale la stessa cosa per gli alcolisti: "L'evidenza non ci suggerisce forse che non proviamo piacere a bere, ma che ci sentiamo tristi e privi di qualcosa se non possiamo farlo?" (Carr 2007).
Come per gli alcolisti, chi ha un problema con le abbuffate alimentari come me non è vittima di mancanza di volontà, ma di un conflitto di volontà: quando ci si abbuffa ci si sente tristi e si soffre di un senso di colpa, quando ci si trattiene ci si sente tristi e si soffre di un senso di privazione (cfr. Carr 2007).
A parità di frustrazione, tanto vale abbuffarsi, no? Dico io.
Ma, parafrasando Carr, parte dell'ingegnoso inganno delle droghe (in senso lato, qui) sta nell'indurci a credere che, senza di esse, la vita non sarà altrettanto piacevole e/o che non riusciremo ad affrontarne lo stress, che non riusciremo più a goderci le occasioni sociali e/o che dovremo passare il resto della nostra vita cercando di resistere alla tentazione.
Ovvero, ciò che ci rende dipendenti è il pensiero di trarre dall'assunzione della nostra droga un reale beneficio.
Dallo stesso libro (È facile controllare l'alcol se sai come farlo, Allen Carr, 2007), leggo metafore che a loro modo aiutano, come:
"Dovete smettere di pensare 'Non potrò mai più bere', e cominciare invece a pensare quanto sarà meraviglioso smettere di avvelenarsi."
o
"Godetevi la sfida di ricostruire la vostra vita."
Ho sentito una frase agghiacciante detta da una presunta leader del web, malata di anoressia, che ha creato vittime a sua volta prima di essere denunciata e fermata. La frase che mi ha sconvolto, riportata dal telegiornale, è stata: "Se hai fame, lecca un limone."
La scelta del verbo, lecca.
Ma quanta roba c'è dietro?
RAGAZZI, LUNGI DA ME INSINUARE CHE IL CIBO SIA SEMPRE VELENO, PARAGONABILE ALL'ALCOL O AL FUMO, O CHE IL MESSAGGIO QUI SIA DI NON MANGIARE IN SENSO ASSOLUTO. PER FAVORE, FACCIAMO A CAPIRCI. LE PERSONE CHE "LECCANO I LIMONI" DEVONO FARSI CURARE, CHIARO?
Il messaggio qui, se c’è un messaggio che può andare oltre il mero racconto di quello che è capitato a me, è che le cose pericolose sono la perdita del controllo sull’istinto (sarebbe come girare nudi ed eccitati per ingroppare qualcuno), combinata al cibo spazzatura, quello che ho sempre cercato io per lenire un grido interiore, quello che le persone affette da disturbi analoghi a quello da Alimentazione Incontrollata non riescono a gestire, se non ingozzandosi fino a scoppiare, convinte che questo porterà loro sollievo. Mangiare come un prurito che non si può non grattare. Questo porta sensi di colpa, in verità. Il sollievo è momentaneo e illusorio, come grattarsi le pustole della varicella. I sensi di colpa, invece, rovinano la vita. E il piacere di mangiare.
Non sono mai le cose in sé, dopotutto, è sempre l’uso che se ne fa. Non è vero?
Resistere alla tentazione nelle ore che seguono la cena, le più difficili, serve soprattutto a una cosa: riappropriarsi della propria autostima. E sentirsi incredibilmente bene la mattina dopo. Vuoti, freschi, ripuliti.
Se si vincono le ore serali, o notturne, si è vinta la giornata. Se si considera il meccanismo di soddisfazione dell’abbuffata per quello che è in realtà, una truffa, perché il risultato non è solo banalmente ingrassare, ma andare in accumulo di grassi e zuccheri, ovvero incontro a patologie come l’infarto o il diabete per cui si rischia la vita, il cibo smetterà di abusare di noi.
Quale pensiero può gratificare di più, a discapito di qualcosa che ci tiene prigionieri, di “sono libero”? Ovvero, il mio mondo non gira più tutto intorno a quello. Posso mangiare quello che mi va se è roba sana, posso camminare intorno al mondo perché grazie a Dio ho le gambe e posso usarle, posso fare come la "nonna pellegrina", voglio far parte di uno dei Cammini di Santiago la prossima estate, posso da questo ricavare gratificazione e salute senza più pensare a quello che diavolo ho mangiato. Posso avere altro, posso essere altro.
Qui la forza di volontà non c’entra niente, bisogna rendersene conto o si passerà il resto della vita a desiderare quello di cui ci si sta privando fino a sfinirsi, arrendersi, abbuffarsi e ricominciare da capo. Qui si tratta di riprogrammare alimentazione e abitudini. E io mi sto facendo aiutare in questo.
Ho detto al mio medico: “Parliamoci chiaro. Anche la prima volta li ho persi i chili, perché temevo di fare brutta figura qui da lei, più che altro..! ma poi li ho ripresi, perché, come ho finito la dieta e ho reintrodotto intolleranze, piaceri e assenza di monitoraggio, il peso è risalito. Sia sincero, me lo dica. Ridendo e scherzando, qui si tratta di fare la dieta tutta la vita? Sgarrare una volta ogni tanto, e così via?”
Forse la risposta vi deluderà, io sono ancora qui a cercare di capire... Ma una cosa vera l’ha detta.
"Le vecchie abitudini sono forti e gelose. Non si fanno cambiare facilmente se hanno un'avvisaglia che tu vuoi farlo. Combatteranno per la loro vita con sottigliezza e forza di persuasione. Se sono troppo attaccate, si vendicheranno. Dopo un giorno o due di sforzo straordinariamente virtuoso, ti mostreranno tutta una serie di motivi per cui il nuovo metodo non è buono per te, per cui non dovresti cambiare e per cui forse sarebbe meglio abbandonare del tutto il progetto. Alla fine non avrai ottenuto nulla di buono. Il tuo errore? Ti sarai stancato troppo e avrai esaurito le tue buone intenzioni prima di avere la possibilità di vedere se il programma sarebbe stato quello giusto per te."
Questa è una citazione tratta da un libro di Dorothea Brande che si chiama Diventa scrittore. L’atteggiamento e l’esercizio mentale per diventare un grande autore, edito nel 2017. Perché poi le cose che faccio tornano tutte e si incrociano fra loro.
Il mio medico sostiene che sarei io a percepire le nuove abitudini alimentari come dieta, cioè sacrificio, perché sono diverse da quelle adottate nella mia vita finora. Bisognerebbe prenderle invece per quello che sono in realtà, cioè solo nuove abitudini.
Le vecchie, forti e gelose, le ha chiamate "ipotalamo che tende a ripristinare l'equilibrio quando questo viene alterato in qualche funzione", ma il concetto non cambia.
Il nostro bellissimo centro di regolazione, infatti, che ne sa che noi vogliamo che il nuovo punto di equilibrio sia quello raggiunto con la dieta? Lui si difende, poveretto. Potrebbe metterci mesi, anni, a capirlo. E, fino ad allora, cercherà di riportare l'organismo al peso di prima. L'unico modo che abbiamo per aiutarlo a capire, a conclusione della dieta, è mantenere il peso più stabile possibile, con minime oscillazioni, che non devono superare il chilo né in un senso né nell'altro. Ovvero, fare amicizia con lo specchio e con la bilancia, e continuare a monitorarsi due volte a settimana per tutto il tempo necessario a stabilire il nuovo punto di equilibrio (il fat-point degli americani).
E viene fuori che sarebbe anche carino che io iniziassi a pensare non più da ex sovrappeso, ma solo da persona magra: un ex fumatore avrà sempre paura di ricaderci, penserà di essere sempre soggetto alla dipendenza dal fumo perché conosce il sapore della sigaretta, sa bene cosa si perde. Un non-fumatore non sa niente, nemmeno gli importa.
Per lo stesso principio, è facile indurre l’inconscio a percepirsi come sempre in pericolo di ricaduta, a vivere eternamente all'erta, mentre sarebbe giusto guardarsi a quello specchio lassù e vedere con oggettività che si fa parte del mondo dei magri, ora. E sarebbe un gran peccato perdere quello che si sta guardando.
Per una scopata alimentare.
La motivazione è tutto, naturalmente, è quella cosa che trasforma la rinuncia in conquista.
Io potrei dire di avere la mia nuova vita come motivazione, il mio nuovo mestiere, l'aver chiuso con le cose che mi trascinano nella frustrazione e nell'insoddisfazione. Ho tutti voi che fate il tifo per me come motivazione. Ma non basta. Non credo si tratti di qualcosa di ragionato, la motivazione va ad abitare un angolino dentro, un angolino nuovo, qualcosa che si illumina all'improvviso e prende forma e che, siccome appartiene a noi soltanto, rimane anche quando tutto ciò che ci aiuta dall'esterno sparisce. E, come un sassolino che si incastra in uno degli ingranaggi del meccanismo sbagliato, all'improvviso lo blocca. Si tratta di emozioni innescanti, non di ragionamento.
Il sassolino può anche essere una cosa banale, un'idea, una foto, una promessa, una frase.
La mia nuova immagine da rispettare, quella del mio Tempo delle Cose Nuove, è un fuori che rispecchia un dentro nuovo. E siccome questi quattro chili e mezzo che mancano sembrano una ventina, sembrano l’ultima scalata dell’Everest, la componente più banale della mia motivazione, ovvero l'ultima, è... questa foto.
Avete presente Rocky, che usa la foto di Drago infilata nella cornice dello specchio prima del grande incontro in Rocky IV? E, mentre si allena con le travi e tira carri in mezzo alla neve grida il suo nome? Ecco, è più o meno così che io uso questa foto.
E la gente che mi vuole bene che mi dice di non cambiare troppo, che dopo "non sono più io". E io che allora ringrazio per l'amore che ho intorno, che mi fa sentire bellissima tutti i giorni. A prescindere.
Di fronte alla frustrazione che da donna a donna può provocare Halle Berry, qui sopra nel film Dark Tide (di John Stockwell, 2011), ci si può andare a mangiare un panino, un altro, l'ennesimo. Oppure organizzare un piano dettagliato e, per la miseria, diventare come lei.