"Growth is painful. Change is painful. But nothing is as painful as staying stuck somewhere you don't belong."
(Mandy Hale)
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In azienda da noi funziona che per entrarci devi fare ripetuti colloqui, che in genere vanno avanti per settimane, accompagnati da una o più prove pratiche da spedire entro i termini stabiliti. Poi, forse, ti richiamano. Questo a meno che tu non abbia delle conoscenze all'interno. In questo caso, di solito si passa direttamente al colloquio finale.
Io non avevo conoscenze.
In questi colloqui, e nelle prove pratiche, devi dimostrare di essere una specie di prescelto. Poi, da quando metti piede in azienda, se assunto, devi dimenticare più o meno tutto quello che sai e ricominciare da capo a studiare come uno scolaretto sull'abecedario tutti i giorni della tua affannata vita davanti ai loro strumenti costruiti ad hoc (che quindi non riutilizzerai mai), ai flussi operativi, a quelli commerciali, ai mezzi e ai materiali che non ti dànno fino al limite delle scadenze, alle gerarchie di ruolo, lecite e illecite, alle procedure standard e a quelle "straordinarie", ai "meeting", e alle braghe calate dei commerciali, a clienti viziati perché milionari, alle date di consegna stabilite prima ancora dell'analisi di fattibilità, con l'ansia da prestazione e un gran complesso di inadeguatezza per il primo anno e mezzo. Oltre il quale potrai dire di aver concluso giusto l'inserimento.
Così, ti domandi ogni giorno se sei pazzo tu o sono pazzi loro (si parla di una tale grandezza, ca. 700 dipendenti in open space, che il caos è inevitabile) in mezzo a gente che per giunta parla una specie di linguaggio ibrido... "Ale, scusa sono abbastanza in rush, ho una call col cliente fra poco: ti scoccia se ti forwardo l'email che ci ha mandato, quella sulla CTA, così mi dài un feedback? Mi raccomando ASAP, per favore!"
-.-'
Quello che ti aspetta in seguito, attenzione questa è la parte incoraggiante, è di cestinare tutte le conoscenze nuove perché tutto quello che sai è appena diventato vecchio.
Vecchio come le videocassette per i DVD, mi spiego? I DVD per i Blu-ray. I fissi per i cellulari, i cellulari per gli smartphone. E così via. E se cambiano gli hardware, i corpi fisici, figuriamoci i software, le anime che devono abitarli.
Ma la portata monetaria giornaliera è troppo importante, e così loro sfornano strumenti e piattaforme nuove ogni due anni, e tu non smetti mai di studiare tecniche e linguaggi sconosciuti per farli funzionare. Per fare magie.
Perché la verità è che è tutta una grande costante e sfiancante gara di prestigio, una maratona che vale miliardi, una competizione infinita, basata sul principio secondo il quale il fine giustifica i mezzi. E se non sgomiti, sei fuori.
Vorrei ricordare che io non ero competitiva nemmeno a dodici anni.
E giusto per far capire a tutti di che diavolo sto parlando, è come aver ottenuto un lavoro come interprete, specializzata in francese, e trovarsi a dover improvvisare il cinese ostrogoto (che si parla soltanto lì), o il russo applicato, una forma di dialetto fenicio (ne avrai fatto un po' al liceo, no?) se all'occorrenza serve. Sempre lingue sono, dopotutto. Il concetto è quello: soggetto, verbo, attributi e complementi. Li metti insieme... Dài, fammi vedere l'entusiasmo! Capirai anche che non posso pagarti come senior se non mi conosci il dialetto fenicio... eh eh eh... Stai imparando, dopotutto. Lo sai che qui dentro premiamo gli umili e i volenterosi? Facciamo tutto un po' alla cazzo ma l'importante è che non lasciamo indietro niente. Magari ci scappa una promozione, eh? Dài! È un'opportunità!
La sensazione che tutte le gratifiche e le strette di mano che hai ricevuto da sempre siano state organizzate. Fasulle, quindi, perché la verità è quella lì, è quella nuova lì: 1) che non vali poi così tanto 2) che se te ne vai tu c'è la fila fuori che attende di prendere il tuo posto 3) che sei un elemento con testa pensante e braccia operanti entrato a far parte di una catena di montaggio all'interno di un mercato cinico e opportunista fatto di esigenze indotte e machiavelliche strategie finanziarie (che, come dire, diffondono il virus e poi arrivano con l'antidoto pronto). E patetici arrivisti col cervello incravattato, l'anima votata alla carriera, la gastrite cronica e la famiglia rotta, ma il portafoglio pieno e i complimenti dei superiori ben custoditi nei pantaloni. E questo tu non lo sai. Questo tu lo scopri dopo, giorno dopo giorno, un pezzettino alla volta, fino a che il grande puzzle prende forma. E ti rendi conto di essere stata, per ingenuità, persino complice del meccanismo.
In un luogo dove, per inciso, sei un tecnico con un numero, ovvero sei un numero. Dove, nell'insieme, l'aspetto umano non esiste. E, anche se fosse, non conta un cazzo.
Mio padre fa sempre un po' fatica a darmi ragione. So che per quel che può mi capisce, ma lui ha la mentalità di un imprenditore: se puoi dare 10, dài 8, sii più veloce e porta a casa un prodotto in più.
Non puoi dire questo a un perfezionista.
Lui viene dalla povertà, dalla generazione che si è fatta da sola, dal principio secondo il quale il denaro fa la differenza. Né mi ha mai raccontato favole su come va il mondo, perché il mondo è questo e non è che arrivi tu con le tue buone intenzioni e cambi le cose.
Mia madre, invece, nonostante arrivi dalla povertà anche lei, mi incoraggia sempre, ma teme molto il mio sangue caldo, e così si siede e cerca a modo suo di farmi ragionare. Capisco quando è in pena per me perché fa questa cosa, si siede.
Alla fine dei conti, con tutto l'amore che ci possono mettere le persone vicine, tutto quello che resta da decidere è se vuoi continuare a far parte del gioco, oppure no. Che se vuoi giocare, è così che va, non puoi cambiarlo il gioco.
Il vetro non è rotto dal sasso, ma dal braccio esperto di un ingenuo gradasso.
Io in questo gioco avevo scommesso tutto. Voglio dire, dopo l'università, prima di tutto questo. Se torniamo indietro di qualche anno, io ho lasciato la mia città per questo gioco, per trovare un posto fisso, ché non ne potevo più di contratti a progetto fasulli e aziendupole ambiziose che si spegnevano come fiammelle una dietro l'altra al primo soffio di vento. Le stesse che pretendono tu sia una specie di volenterosa tuttologa, così vali molto e non costi niente. Oltre alla contraddizione di fondo "cercasi max. anni 20 con 40 di esperienza", tu stai lì a cercare di farti valere, in ogni caso, evitando di farti trovare mancante anche quando sarebbe il minimo. E succede che la gente poi ti stringe la mano, ti guarda con stima. Questa cosa mi faceva impazzire di ansia. Mi sentivo un grande bluff. Un'improvvisata. È andata bene, pensavo ogni volta. Nel senso di Mi è andata bene. Ma non si può puntare sempre sulla buona sorte. Einstein diceva che il calabrone non ha una struttura alare adatta al volo, ma che lui non lo sa e quindi vola lo stesso. Io aspettavo un amico, un Albert (!) che venisse a svelarmi il motivo di quella sovrumana fatica quotidiana, che mi mettesse una mano sulla spalla e mi dicesse che era normale che non mi tornassero i conti, che in realtà ero solo un insetto ottimista ed era questo che mi rendeva merito. Che mi rendeva libera, perché non conoscevo il confronto, né il limite. Oppure che mi spiegasse a cosa era adatta la mia struttura. Tipo, per esempio, se avevo sbagliato mestiere, che quando uno nasce per fare qualcosa gli viene naturale. Io non ce la facevo più a faticare in quel modo. Costruire software mi piaceva, ma non mi veniva naturale. Non era quello per cui avevo studiato esattamente.
La logica complessa che sta dietro alla programmazione e il fatto che alla fine tutto deve tornare per certezza matematica è rassicurante, e si tratta di un lavoro in cui ogni volta realizzi qualcosa che prima che passassi tu non c'era. Ma si tratta anche di risolvere enigmi dalla mattina alla sera. E ognuno ci arriva coi suoi tempi. E quelli non si studiano. È una fatica che logora, per quanto mi riguarda, a lungo andare.
Mi sarebbe piaciuto che il vero motivo di quelle strette di mano fosse il gigantesco nonostante che ci stava dietro. Loro non sapevano quanto tempo ci avevo messo, e non sapevano della qualità di quel tempo. Tipo che ansimante e ossessiva mi stiravo i legamenti del cervello, tutte le volte. La fatica è sempre stata la mia chiave, lo studio, non il talento. Il talento è una questione di tempi, non di capacità. A parità di risultati, se hai talento ci arrivi prima. Tutto qua.
Un applauso per sentirsi importante, senza domandarsi per quale gente.
Che gente era quella che mi stringeva la mano? Potevo fidarmi di loro? Che valore aveva la loro approvazione? Aspettavo una risposta, un'occasione, volevo farcela fuori di qui, volevo una eccellenza, volevo un confronto, altro, alto, volevo salire sul ring contro il campione del mondo, anche se temevo di ritrovarmi incastrata ugualmente poi in quell'eterno meccanismo insano del Mi è andata di culo di nuovo oppure, in caso contrario, dell'Ecco vedi avevo ragione. (Ne sarei mai uscita? La mia testa è sempre quella)
Dovevo salire sul ring contro me stessa, ecco cosa dovevo fare. Ma dovevo darle un altro nome, quello di un altro cielo, quello di un altro odore. Dovevo andare via da qui. E l'ho fatto, alla fine.
Sono partita e sono tornata all'università, fuori dalla mia piccola realtà sicura, e ho preso un Master in Sviluppo di Media Interattivi sotto Ingegneria Informatica. Ho vinto la sfida, e dopo due anni sono tornata a casa, rinunciando a una proposta di contratto a tempo indeterminato a Milano pensando di trovare in Questa azienda, che nel frattempo mi si era svelata, quello che avevo cercato da sempre. E per di più a Bologna, casa mia.
E a quanto pare ho lottato per la cosa sbagliata. Ed è assurdo da riuscire ad accettare. Sarebbe stata perfetta, se solo avesse funzionato. Arrivare in cima all'Everest, essere in procinto di affondare la bandiera sul cocuzzolo e rendersi conto all'improvviso, dopo un'occhiata al panorama che da giù non potevo vedere, di aver scalato la montagna sbagliata. O aver faticato tanto per preparare una faraona coi fiocchi, aver sfidato la neve per comprare gli ingredienti fuori città nonostante la bufera, aver scommesso l'intera cena su quella, certa e serena dell'eccellenza del risultato, e scoprire quando arrivano gli ospiti che son vegetariani.
Non te l'avevamo detto?
Andare a lavorare come le statue di bronzo "Les Voyageurs" di Bruno Catalano, avete presente?
Provo dispiacere per questa storia, per come è andata a finire. Mi sento un'adultera. La sensazione di restare, perché è ricco, con un marito che non amo anche se siamo amici. E di avere un amante nel frattempo che mi accende la passione veramente ma non garantisce sul futuro perché è uno spirito libero e non vuole impegnarsi.
Sono innamorata dell'amante, l'Accademia e tutto il resto, ma lui fa promesse che non può mantenere.
E poi, cielo... mio marito.
C'è qualcosa che resta, nonostante tutto. Ed è gratitudine. Perché mi campa, finché ce n'è, perché ho trovato tra le anime grigie anche qualcuno come MJ e gli altri amici, e perché – ed è un paradosso – in un modo o nell'altro, questa azienda è stata e sarà il mio biglietto di ingresso alla felicità.
E devo la felicità che voglio trovare, oltre che banalmente a me stessa, alla gente che mi vuole bene e vuole vedermi stare bene. Alle persone che hanno perso tutto e a me invece non manca niente, grazie a Dio. Alla fede che ho ricevuto in dono, e al miracolo che mi ha salvato la vita.
Ed è un dovere bellissimo.
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